In sede di separazione consensuale è possibile la risoluzione delle questioni patrimoniali tra coniugi.
Nell’ambito del procedimento per separazione consensuale i coniugi possono liberamente concordare sia gli aspetti patrimoniali che quelli personali o relativi alla vita familiare.
A tali accordi viene riconosciuta valenza negoziale in quanto espressione della capacità delle parti di autodeterminarsi responsabilmente e, impediscono al giudice qualsivoglia valutazione circa il loro contenuto, ma devono essere adottati nel rispetto dei diritti indisponibili previsti dall’ordinamento.
NORME DI LEGGE
Codice Civile Art. 194 – Divisione dei beni della comunione.
La divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti eguali l’attivo e il passivo.
Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge.
Art. 210 – Modifiche convenzionali alla comunione legale dei beni.
I coniugi possono, mediante convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, modificare il regime della comunione legale dei beni purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell’articolo 161.
I beni indicati alle lettere c), d) ed e) dell’articolo 179 non possono essere compresi nella comunione convenzionale.
Non sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale.
GIURISPRUDENZA
Cassazione civile sez. II, 2/9/2022 n.25925.
Fatto
1. Con atto di citazione ritualmente notificato in data 17 marzo 2006, G.S. convenne in giudizio l.I., dinanzi al Tribunale di Reggio Emilia, per sentire dichiarare la nullità della divisione dei beni facenti parte della comunione legale tra i coniugi effettuata in sede di separazione consensuale, così come risultante dall’accordo di separazione inserito nel verbale di udienza presidenziale e dalle parti sottoscritto.
1.1. Dal predetto verbale risultava l’assegnazione in via esclusiva della casa coniugale e di un ulteriore immobile, comprensivi di mobili e arredi ivi collocati, alla l. e l’attribuzione della proprietà esclusiva dell’autoveicolo di proprietà della l. all’odierno ricorrente.
1.2. Dedusse il G. che la lamentata nullità della divisione derivava dalla violazione dell’inderogabile principio della parità delle quote ex art. 194 c.c.; nell’accordo di separazione non venivano infatti considerati come parte della comunione legale tra i coniugi il denaro, i titoli e i fondi di investimento suddivisi tra i medesimi in parti uguali prima dell’udienza presidenziale, di talché era evidente la sperequazione tra le assegnazioni.
1.3. Si costituì l.I. deducendo l’inesistenza di alcuna lesione della parità delle quote ex art. 194 c.c. in quanto, dal verbale di udienza presidenziale, risultava che il Sig. G. nulla doveva alla moglie, avendo trattenuto per sé beni di pari importo.
2. Il Tribunale di Reggio Emilia rigettò la domanda condannando il sig. G. al pagamento delle spese di lite.
2.1. Secondo il Tribunale, il giudice non ha il potere di modificare l’assetto patrimoniale che le parti si sono autonomamente date, sulla base di un contratto liberamente formato nella forma prescritta dall’ordinamento, non limitando, l’art. 194 c.c. i poteri dispositivi delle parti.
2.2. Il Tribunale ritenne, inoltre, che dalle dichiarazioni inserite nel verbale di udienza presidenziale, neanche risultava provata l’asserita sperequazione, stante la dichiarazione del G. di aver “trattenuto per sé beni di pari importo”.
3. Avverso il provvedimento di rigetto propose impugnazione innanzi alla Corte di appello di Bologna G.S., deducendo che l’evidenza della sperequazione risultava chiaramente dall’attribuzione di due immobili alla coniuge, a fronte del solo veicolo al Sig. G. e dunque non era possibile che le quote, così formate, soddisfacessero la prescrizione di cui all’art. 194 c.c..
3.1. Quanto alle spese processuali, l’odierno ricorrente chiedeva disporre la compensazione, anche in caso di conferma della sentenza impugnata, vista la complessità della questione trattata.
4. La Corte di appello rigettò l’impugnazione.
4.1. La tesi prospettata dall’appellante, secondo la Corte distrettuale, si fondava su una errata interpretazione dell’accordo, che era il seguente: in primo luogo veniva pattuito il trasferimento dei due immobili alla moglie, a fronte del quale nulla doveva essere corrisposto dalla l., avendo il marito trattenuto per sé beni di pari importo; solo successivamente veniva pattuita l’assegnazione dell’autovettura al marito sicché non sussisteva alcuna evidente sperequazione.
4.2. In merito alle spese processuali del primo grado, il giudice dell’impugnazione ritenne che, in applicazione del principio della soccombenza, le spese dovessero essere poste a carico del G..
5. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso per cassazione G.S. sulla base di due motivi.
6. Ha resistito con controricorso l.I..
7. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 194 e 210 c.c. nonché degli artt. 2731,2733 e 2735 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere erroneamente ritenuto, la Corte d’appello di Bologna, che l'”attestazione” resa da G.S., in sede di udienza di comparizione dei coniugi, di “avere trattenuto per sé beni di pari importo” rispetto a quelli attribuiti alla moglie in sede di divisione dei beni facenti parte della comunione legale, escludesse la violazione dell’art. 194 c.c..
1.1. Secondo l’odierno ricorrente, la Corte di appello di Bologna avrebbe fondato la propria pronuncia di rigetto sul riconoscimento del valore giuridico di confessione alla predetta dichiarazione, pur qualificandola atecnicamente come “attestazione”, attribuendole, pertanto, valore di piena prova nei confronti del G. in ordine alla verità dei fatti su cui verte, e ciò in violazione del principio inderogabile della parità delle quote nella divisione dei beni che costituiscono la comunione legale tra i coniugi, non suscettibile di costituire oggetto di confessione, né giudiziale né stragiudiziale.
1.2. Di conseguenza, rimuovendo tale errore di diritto, risulterebbe evidente, dalle condizioni di separazione inserite nel verbale di udienza presidenziale, la disuguaglianza tra le quote assegnate ai due coniugi.
2. Il motivo è infondato.
2.1. E’ noto che alla base della separazione consensuale ex art. 158 c.c. vi è, necessariamente, l’accordo tra i coniugi finalizzato sia alla definizione dei rapporti patrimoniali tra i medesimi, sia alla regolamentazione dei rapporti con i figli, per il tempo successivo alla separazione.
2.2. Tali accordi, dunque, si compongono di un contenuto necessario, comprendente le pattuizioni connesse all’assegno di mantenimento, la collocazione dei figli minori, l’assegnazione della casa familiare, e un contenuto eventuale, concernente determinazioni ulteriori assai varie, che trovano occasione, ma non causa, nella decisione dei coniugi di vivere separati, e con cui i medesimi disciplinano l’instaurazione di un regime di vita separata, attraverso statuizioni patrimoniali ed economiche (cfr. Cass. 70108/2019, Cass. n. 16909/2015).
3. Tradizionalmente, gli accordi “negoziali” in materia familiare erano ritenuti del tutto estranei alla materia e alla logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia trascendente quello delle parti, e l’elemento patrimoniale, ancorché presente, era strettamente collegato e subordinato a quello personale (Cass. n. 18066/2014).
3.1. Oggi, escludendosi che l’interesse della famiglia sia superiore a quelli dei singoli componenti, si ammette la natura essenzialmente negoziale dell’accordo di separazione consensuale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, tanto da essere definito, riprendendo un’efficace espressione della dottrina, come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia (Cass. n. 17607/2003, Cass. n. 657/1994, Cass. n. 2270/1993).
3.2. Come tale, nei verbali di separazione consensuale, sono frequenti le clausole contenenti trasferimenti di proprietà o altri diritti reali su beni immobili o mobili da un coniuge all’altro, tanto che le Sezioni Unite di codesta Corte sono giunte ad affermare che le clausole dell’accordo di separazione consensuale a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni – mobili o immobili – o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l’attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all’art. 29, comma 1-bis, della L. n. 52 del 1985, come introdotto dall’art. 19, comma 14, del D.L. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla L. n. 122 del 2010 (Cass., S. U., n. 21761/2021).
3.3. Il giudice, dunque, in ragione dell’ormai avvenuto superamento della concezione che ritiene la preminenza di un interesse della famiglia superiore rispetto a quelli dei singoli componenti, realizza, su tali accordi, un controllo solo esterno in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli.
3.4. Ne consegue che i coniugi possono concordare, con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare, quali, in particolare, l’affidamento dei figli e le modalità di visita dei genitori, posto il diritto di ciascuno di condizionare il proprio consenso alla separazione personale ad un soddisfacente assetto globale dei propri interessi economici (cfr. n. 18066/2014).
4. Ciò posto, nel caso di specie, l’esclusione della sperequazione nelle condizioni di separazione è scaturita non, come sostenuto da parte ricorrente, dall’attribuzione da parte del giudice dell’impugnazione del valore di confessione all’affermazione “nulla deve essere pagato alla moglie avendo il marito trattenuto per sé beni di pari importo”, quanto dall’interpretazione letterale dell’accordo inserito nel verbale di udienza, avendo il giudice stabilito che le parti avessero inteso pattuire, in primo luogo, l’assegnazione di due immobili alla l. correlata alla previsione per cui “nulla deve essere pagato alla moglie, avendo il marito trattenuto per sé beni di pari importo” – con ciò realizzando una corretta ripartizione delle quote della comunione legale. Seguiva poi un secondo accordo, separato, avente ad oggetto l’assegnazione del veicolo di proprietà della l. al G..
4.1. Ciò risulta chiaramente dalla motivazione della sentenza gravata, posto che effettivamente non di confessione si tratta, quanto di dichiarazione resa da una parte a un pubblico ufficiale che, per consolidata giurisprudenza, costituisce un atto pubblico avente fede privilegiata di provenienza dal Cancelliere che attesta gli atti e i fatti avvenuti in sua presenza (Cass., SU, n. 21761/2021; Cass. n. 440/2009; Cass., n. 26105/2014), trasposta in un verbale che ha la precisa finalità di regolare congiuntamente le conseguenze della crisi familiare.
5. Trattandosi di mera interpretazione di un contratto, peraltro, l’indagine compiuta dal giudice di merito al fine di stabilire l’oggetto, l’estensione ed i limiti della stipulazione inerisce ad un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione esente da vizi logici ed errori giuridici.
6. Con il secondo motivo di ricordo, si deduce la violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2 in relazione agli art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per aver ritenuto, la Corte d’ Appello di Bologna, che la soccombenza dell’appellante in primo grado impedisse, per ciò stesso, la valutazione dei “giusti motivi” che permettono al giudice di disporre la compensazione, anche solo parziale, delle spese di lite.
6.1. La Corte non avrebbe dunque tenuto conto della peculiarità propria del caso esaminato, nonché dell’obiettiva difficoltà e complessità della questione trattata e le incertezze, dottrinali e giurisprudenziali, che caratterizzano la normativa sul regime patrimoniale dei coniugi. Queste consentirebbero, secondo il ricorrente, di derogare al generale principio della soccombenza, sulla base di quanto disposto dall’art. 92 c.p.c. nella formulazione ratione temporis applicabile, antecedente alla riforma del 2009, la quale ha limitato il potere del giudice in termini di compensazione delle spese di lite, ai soli casi di gravi ed eccezionali ragioni o di assoluta novità della questione giuridica trattata o di mutamento della giurisprudenza sulle questioni dirimenti.
7. Il motivo è infondato.
7.1. E’ l’art. 92 c.p.c. ad attribuire tale potere ed esplicitare le relative condizioni, prevedendo, al comma 2 (come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 11), che il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti, se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate in motivazione.
7.2. In proposito, è opportuno premettere che la disposizione citata, nella parte in cui fa riferimento alla concorrenza di “gravi ed eccezionali ragioni”, così come nella versione precedente – qui da ritenersi applicabile – faceva riferimento alla concorrenza di “giusti motivi”, si pone come norma “elastica”, configurabile quando una disposizione di limitato contenuto, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa (Cass., SU n. 2572/2012).
7.3. Rientra, in definitiva, nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altre giuste ragioni, che il giudice di merito non ha obbligo di specificare, senza che la relativa statuizione sia censurabile in cassazione, poiché il riferimento a “giusti motivi” di compensazione denota che il giudice ha tenuto conto della fattispecie concreta nel suo complesso, quale evincibile dalle statuizioni relative ai punti della controversia e posto che in tal caso il sindacato di codesta Corte è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, esula da tale sindacato (Cass. n. 20457/2011; Cass. n. 17457/2006).
8. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
9. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002 art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5700,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 14 giugno 2022.
Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2022.